Il licenziamento orale
La Corte di Cassazione – Sez. Lavoro, con sentenza 13 ottobre 2020 – 8 gennaio 2021, n. 149 è tornata a pronunciarsi su una delle tematiche maggiormente dibattute negli ultimi anni, vale a dire sulla ripartizione dell'onere delle prova nel caso di estromissione “orale” del lavoratore da parte del datore di lavoro.
Si tratta, in effetti, di controversie piuttosto frequenti - soprattutto a livello di PMI - nelle quali, a fronte della cessazione del rapporto di lavoro, dinanzi al Magistrato si presentano due versioni in netta antitesi: da una parte quella del lavoratore che afferma di essere stato licenziato oralmente dal datore di lavoro; dall’altra quella del datore di lavoro che deduce che, invece, il rapporto si è estinto per dimissioni rassegnate dal lavoratore ovvero per una risoluzione consensuale.
Il punto centrale della questione è, come detto, su chi far ricadere l’onere probatorio in ordine alla questione preliminare della modalità di cessazione del rapporto di lavoro.
In passato la Giurisprudenza si è mostrata altalenante sul tema, schierandosi principalmente a favore della parte lavoratrice. In diverse pronunce, infatti, si è affermato che “in mancanza di prova delle dimissioni, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta ex lege a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro -avente valore di una eccezione – ricade sull’eccipiente – datore di lavoro ex art. 2697 c.c.” (Cass. sent. n. 8927/15 del 5.05.2015,; cfr. anche Cass. sent. n. 14202/2018).
In diversi arresti rappresentativi di tale orientamento, peraltro, è emerso che laddove il datore di lavoro non fosse riuscito a dare prova delle dimissioni del lavoratore, il giudice avrebbe dovuto valutare ogni altra circostanza utile alla qualificazione di legittimità o meno del licenziamento, ponendo, quindi, quale presupposto di ogni assunto che - accertata l’interruzione del rapporto lavorativo - esso sia cessato per volontà datoriale secondo quanto asserito dal lavoratore. (Cass. civ., sez. lav., sent. 16 ottobre 2018, n. 25847).
Di recente, dopo aver chiarito che il termine “estromissione”, in passato usato di sovente in maniera ambigua, null’altro è che un sinonimo di “licenziamento”, la Sezione Lavoro della Cassazione imputa al lavoratore che impugna un licenziamento, - ancorché per dedurne l’inefficacia causa il mancato il rispetto della forma scritta - l'onere di provare, oltre che la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, il fatto costitutivo della sua domanda, rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti.
Secondo la Cassazione, per ciò che attiene alle modalità di interpretazione del disposto di cui all’art. 2697 c.c., si deve ritenere operante la regola “in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda la vedrà respinta, anche se non risultino provate neanche le dimissioni eccepite dal datore, in ossequio al risalente principio processuale secondo cui l'onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge, in concreto, solo quando l'attore abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché l'insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell'avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall'onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa” (principio già espresso da Cass. civ., Sez. Un., sent. 28 settembre 2000, n. 1044).
Con la sentenza nr. 149/2021, quindi, la Corte di Cassazione - Sez. Lavoro aderisce, ancora una volta, al più recente orientamento (di cui alle precedenti sentenze n. 31508/18 e n. 3822/19) affermando, inoltre, che "la mera cessazione definitiva nell’esecuzione delle prestazioni derivanti dal rapporto di lavoro non è di per sé sola idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di circostanza di fatto di significato polivalente, in quanto può costituire l’effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale. Tale cessazione non equivale a "estromissione", parola sovente utilizzata nei precedenti citati ma che non ha un immediato riscontro nel diritto positivo per cui alla stessa va attribuito un significato normativo, sussumendola nella nozione giuridica di "licenziamento", e quindi nel senso di allontanamento dall’attività lavorativa quale effetto di una volontà datoriale di esercitare il potere di recesso e risolvere il rapporto. L’accertata cessazione nell’esecuzione delle prestazioni può solo costituire circostanza fattuale in relazione alla quale, unitamente ad altri elementi, il giudice del merito possa radicare il convincimento, adeguatamente motivato, che il lavoratore abbia assolto l’onere probatorio sul medesimo gravante circa l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro ad iniziativa datoriale".
In altre parole, la cessazione del rapporto di lavoro non può mai costituire elemento su cui il Giudice deve basare tout court il proprio convincimento circa l’”estromissione” (o licenziamento) dall’azienda del dipendente. Esso dovrà essere accompagnato da ulteriori elementi, gravanti sul lavoratore, in ordine alla fondatezza della propria domanda giudiziale vertente sull’asserito licenziamento orale.
Precisa la Cassazione, poi, che “l’onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l’attore abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché l’insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell’avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall’onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa”.
La sentenza in commento si allinea all’orientamento prevalente della Suprema Corte, che già in passato aveva enunciato il seguente principio di diritto “Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova". Corte di Cassazione – Sentenza 09 luglio 2019, n. 18402.
Con tali recenti pronunce, gli Ermellini parrebbero escludere, quindi, che la prova sul licenziamento verbale costituisca una “prova diabolica”, seppur resta innegabile che per il lavoratore persistano numerose difficoltà nel fornire una prova in tal senso, soprattutto se il licenziamento orale è avvenuto in assenza di testimoni, il che potrebbe celare anche maliziose condotte da parte del datore di lavoro a cui il lavoratore non sappia far fronte per ragioni di emotività (per esempio offrendo al datore – in forma scritta – la propria prestazione ed “incassando” il rifiuto da parte di quest’ultimo).
Proprio per cercare di temperare tale difficoltà probatoria da parte del lavoratore in veste di attore, soprattutto in caso di contrasto dovuto alla concomitante presenza di versioni difformi, (laddove la parte datoriale eccepisca le dimissioni del lavoratore), la Giurisprudenza ha chiarito che il Giudice deve effettuare una rigorosa valutazione degli eventi, ascoltando anche testimoni de relato (ad esempio colleghi con cui il lavoratore possa essersi confidato), o basandosi su presunzioni, il tutto facendo, laddove possibile, larga applicazione dei poteri officiosi ex art. 421 c.p.c.
In tal senso, infatti, la Corte di Cassazione, nella richiamata pronuncia n. 18402/2019 ha affermato che “ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697, co. 1, cod. civ., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa”.
Sarà dovere del Giudice, quindi, utilizzare i propri poteri officiosi per vagliare attentamente le modalità di interruzione del rapporto di lavoro (dimissioni, licenziamento o interruzione consensuale che sia), giacchè sussiste il concreto pericolo che l’ormai conclamata inversione dell’onere della prova sul licenziamento (posta a carico del lavoratore) possa rischiare di offrire al datore una patente di immunità rispetto a licenziamenti illegittimi anche per ragioni sostanziali, che la violazione preliminare all’obbligo di forma ha finito col sottrarre ad ogni controllo di merito.
Attenta dottrina, infatti, si è a ragione domandata se sia corretto che la prova su un fatto preliminare quale la modalità di cessazione del rapporto di lavoro - che l’ordinamento (in caso di licenziamento) prevede debba avvenire ad substantiam in forma scritta - gravi su un soggetto diverso da chi dovrebbe provarne la legittimità sostanziale (così Giovanni Raiti in “La Cassazione fa gravare sul lavoratore l’onere della prova del licenziamento intimato oralmente” – LavoroDirittiEuropa).
A cura dell’avv. Marco Calabrese