L'evoluzione normativa del concordato preventivo fino alla legge fallimentare del '42
La necessità di governare l’insolvenza è sopraggiunta con l’aumento dell’importanza dei traffici commerciali. Il ceto mercantile aveva la necessità di evitare che le proprie attività fossero in qualche modo ostacolate. Uno di questi ostacoli lo costituiva l’insolvenza.
Le rigide regole che furono applicate per il fallimento, sia dal punto di vista sia economico che penalistico, applicate nei confronti del debitore insolvente e che coinvolgevano anche i suoi familiari, avevano lo scopo di limitare gli effetti perniciosi delle insolvenze sull’economia e sulla collettività. Tuttavia, nell’ottica della maggiore snellezza delle procedure di recupero, era consentito l’accordo tra debitore e creditori, preventivo o successivo al fallimento.
Si evidenziarono sin dai tempi le due anime della gestione della patologia dell’impresa: quella pubblicistica o processuale, che riserva la procedura al Tribunale ed il risultato ai creditori, e quella privatistica o negoziale, cha attribuisce ai creditori e al debitore la facoltà di trovare un accordo soddisfacente per entrambe le parti, quanto più autonomamente possibile rispetto all’intervento del giudice e per quanto esso possa essere comunque previsto.
Nell’evoluzione legislativa dei singoli stati, i paesi con il sistema di commom law hanno concesso maggior spazio a agli accordi tra debitore e creditori, rispetto alle nazioni continentali, più orientate verso la tradizionale natura processuale del procedimento.
Il Codice di Commercio del Regno d’Italia, all’art. 827 prevedeva che il commerciante (o la società commerciale) “anche prima della dichiarazione di fallimento”, potesse far domanda di moratoria, secondo gli articoli del capo II del titolo III se non con essa incompatibili, purché concorressero le condizioni richieste nell’art. 819, ovvero la prova di aver cessato i pagamenti per “conseguenza di avvenimenti straordinari, impreveduti o altrimenti scusabili”; la documentazione o la presentazione di idonee garanzie “che l’attivo del suo patrimonio supera il passivo”; il deposito, insieme alla domanda, dei “libri di commercio regolarmente tenuti” e di “un elenco nominativo di tutti i suoi creditori coll’indicazione del loro domicilio e della somma dei loro crediti”, oltre alla somma occorrente per le spese.
Esaminata la domanda e ritenute sufficienti le “giustificazioni” addotte, sentito il ricorrente in camera di consiglio, il Tribunale poteva ordinare una convocazione dei creditori entro e non oltre 15 giorni, prescrivere i provvedimenti temporanei reputati opportuni e nominare un giudice incaricato di dirigere l’esecuzione della procedura.
Esso si pronunciava in merito all’ammissione del debitore ricorrente alla moratoria, ex art. 822, “tenuto conto speciale del voto espresso dalla maggioranza dei creditori”[1].
La moratoria poteva essere accordata per un termine non superiore ai sei mesi e inibiva l’attivazione e la prosecuzione dei provvedimenti esecutivi nei confronti del debitore.
La sovrintendenza alla procedura liquidatoria dei beni del debitore ai fini dell’estinzione del passivo era affidata ad una commissione di creditori, sotto la direzione del giudice delegato.
Nel caso di pagamento ai creditori anteriori di una quota considerevole dei loro crediti, il Tribunale poteva concedere una seconda moratoria di non oltre sei mesi, col voto favorevole della maggioranza di creditori rappresentanti almeno la metà del passivo residuo.[2]
Durante la moratoria poteva aver luogo un accordo amichevole tra il debitore e i creditori, per regolare convenzionalmente le loro relazioni ulteriori, previo assenso della maggioranza dei creditori che rappresentasse almeno i tre quarti del passivo: i creditori assenzienti assumevano insieme al debitore le conseguenze di ogni lite con i dissenzienti e, all’occorrenza, anche il pagamento integrale dei crediti di questi ultimi.
In caso di non accoglimento della domanda o di inosservanza delle regole della moratoria, il Tribunale dichiarava il fallimento del debitore ricorrente.
Con l’introduzione della Legge 24 maggio 1903, n. 193, parzialmente modificata dagli artt. 23 e 24 della legge 10 luglio 1930, n. 995, è stato introdotto e regolato l’istituto del concordato preventivo, con i princìpi e le caratteristiche che, già presenti in embrione nel vecchio codice di commercio, che ne ha delineato le caratteristiche del concordato odierno.
Secondo la legge del 1903, il commerciante o società commerciale regolarmente costituita in stato di temporanea crisi, che ritiene di superare con una moratoria e la riduzione dei debiti sprovvisti di diritti di prelazione, se ritenuto meritevole ma sfortunato e in possesso di determinate e perentorie condizioni può accedere al beneficio del concordato prefallimentare ed evitare il fallimento.
I punti salienti della procedura sono: l’approvazione dei creditori e l’omologazione del Tribunale.
La proposta del debitore di pagare, offrendo serie garanzie reali e personali, almeno il 40% del capitale dei crediti non privilegiati e non garantiti da pegno o ipoteca, i quali invece si devono pagare per intero, è approvata col voto favorevole della maggioranza dei creditori votanti, la quale rappresenti tre quarti della totalità dei crediti non privilegiati o non garantiti da ipoteca o pegno.
Il concordato è omologato dal Tribunale dopo la verifica dell’osservanza delle formalità legali richieste per la sua regolarità e i requisiti di meritevolezza.
Il controllo del Tribunale si estende altresì al contenuto dell’accordo, al punto che l’omologazione è considerata l’elemento essenziale per la esistenza stessa del concordato, perché “è esclusivamente nell’omologazione che si accentra il beneficio per cui il concordatario evita la dichiarazione del proprio fallimento. Se pertanto il Tribunale non accorda l’omologazione, deve dichiarare d’ufficio il fallimento[3]”.
Rispetto alla legge del 1903, la legge fallimentare del 1942 mantiene una linea di continuità in diversi punti, tra i quali l’amministrazione dei beni e l’esercizio dell’impresa in capo al debitore ricorrente e la valutazione del Tribunale in merito alla convenienza economica del concordato per i creditori, in relazione, tra l’altro, all’efficienza dell’impresa[4]. Con l’entrata in vigore della legge fallimentare del ’42, il concordato preventivo è stato regolamentato dagli artt. 160-186 con numerose modifiche alla versione precedente.
Le funzioni del Tribunale nell’omologazione del concordato non si limitavano altresì a verificare l’osservanza delle regole ma entravano nel merito dei contenuti dell’accordo. Il commissario giudiziale rimaneva nelle sue funzioni di vigilanza fino all’esecuzione completa del concordato: la sua vigilanza doveva costituire garanzia che la percentuale pattuita venisse in realtà pagata[5].
Il testo originario dell’art. 160 della legge fallimentare[6] (RD 16 marzo 1942 n. 267) che si riporta integralmente delineava immediatamente le condizioni per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo come segue:
"L’imprenditore che si trova in stato d’insolvenza, fino a che il suo fallimento non è dichiarato, può proporre ai creditori un concordato preventivo secondo le disposizioni di questo titolo se:
- è iscritto nel registro delle imprese da almeno un biennio o almeno dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata ed ha tenuto una regolare contabilità per la stessa durata;
- nei cinque anni precedenti non è stato dichiarato fallito o non è stato ammesso a una procedura di concordato preventivo;
- non è stato condannato per bancarotta o per delitto contro il patrimonio, la fede pubblica, l’industria o il commercio.
La proposta di concordato deve rispondere ad una delle seguenti condizioni:
- che il debitore offra serie garanzie reali o personali di pagare almeno il 40% dell’ammontare dei crediti chirografari entro sei mesi dalla data di omologazione del concordato; ovvero, se è proposta una dilazione maggiore, che egli offra le stesse garanzie per il pagamento degli interessi legali sulle somme da corrispondere oltre i sei mesi;
- che il debitore offra ai creditori per il pagamento dei suoi debiti la cessione di tutti i beni esistenti nel suo patrimonio alla data della proposta di concordato; tranne quelli indicati dall’art. 46, sempreché la valutazione di tali beni faccia fondatamente ritenere che i creditori possano essere soddisfatti almeno nella misura indicata al n. 1.
Rispetto al sistema precedente si evidenziano numerose modifiche. Nel sistema previgente non era previsto che il debitore potesse proporre ai creditori un concordato attraverso la cessione dei beni in quanto tale soluzione appariva aleatoria, non garantendo affatto ai creditori chirografari la sicurezza di realizzare dalla liquidazione dei cespiti una somma sufficiente a pagare loro una percentuale almeno pari al 40% del loro credito[7].
Tale prassi aveva però avviato il concordato per liquidazione, attraverso il quale veniva consegnato ad uno o più liquidatori il patrimonio dell’imprenditore, ovviandosi con la garanzia patrimoniale generale alla mancanza di garanzie estrinseche. Di fronte a questa realtà, la legge, anziché resistere e perpetuare la finzione, ha ritenuto che il miglior partito fosse quello di provvedere a disciplinarla: anche perché la cessione dei beni è sovente l’unico mezzo per conservare l’impresa, sia pure attraverso il mutamento del suo titolare[8].
Nella prassi si diffuse poi una forma atipica di concordato preventivo che consisteva in una proposta “mista”, caratterizzata, cioè, dalla combinazione degli elementi tipici delle due fattispecie individuate nell’originario secondo comma dell’art. 160 LF, prevedendo sia la cessione di tutti i beni del debitore sia, ad integrazione, l’offerta di garanzie reali o personali, in modo da assicurare il soddisfacimento integrale dei creditori privilegiati ed il pagamento nella percentuale del 40% o superiore dei creditori chirografari.
Più problematica era l’ipotesi di concordato preventivo con assuntore, che prevedesse, cioè la cessione di tutti i beni ad un assuntore, il quale si impegnava a soddisfare i creditori in una percentuale non inferiore a quella legale.[9]
Il concordato misto, in presenza di adeguati investimenti da parte dell’eventuale acquirente dell’azienda, rappresentò uno strumento idoneo a rilanciare l’impresa e, nella prassi, andò anche ad occupare lo spazio riservato all’amministrazione controllata.
Si andò via via affermando così la prassi di inserire nella domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo la cessione o l’affitto d’azienda, con l’obiettivo di salvaguardare il valore economico dell’impresa e di mantenere i livelli occupazionali.
Nel 1993 fu emanata la legge n. 223 che attribuiva il diritto di prelazione all’affittuario che avesse assunto la gestione, anche parziale, di aziende appartenenti ad imprese soggette a procedure concorsuali.
La svolta si comincia a vedere con la riforma del 2005 che incise su un sistema centenario. Con essa emerge la finalità di evitare il fallimento offrendo al debitore “onesto ma sfortunato il mezzo per evitare l’inesorabile distruzione della sua impresa, per sé stessa vitale, con danno alla pubblica economia”, nell’ottica del superamento dello stato di insolvenza, si evidenzia anche nell’istituto del concordato preventivo disciplinato nel titolo III, dall’art. 160 all’art. 186, del Regio Decreto del 16 marzo 1942, n.267, noto come “legge fallimentare”, la quale è ancora oggi in vigore seppure più volte riveduta, interpretata ed infine riformata, almeno parzialmente, con i recenti interventi di legge.
Nonostante ciò, la procedura del concordato preventivo ha assunto un ruolo marginale rispetto al fallimento, pur costituendone la principale alternativa: dal punto di vista del debitore il ricorso al concordato preventivo, infatti, era percepito come anticamera del fallimento e l’imprenditore vi faceva ricorso solo dopo aver esperito ogni tentativo di accordo di tipo stragiudiziale con il ceto creditorio.
Pertanto il concordato preventivo, si riduceva a costituire l’ultimo rimedio possibile al fallimento per il debitore, dopo che questi non aveva avuto successo in ogni altro tentativo di bonario componimento con i creditori, in una situazione di conclamata decozione e di insolvenza ormai irreversibile, quindi nell’impossibilità di conseguire lo scopo del risanamento dell’impresa.
La dottrina ha sollevato numerosi dubbi in quanto, nell’era dell’insolvenza irreversibile, il concordato preventivo, che ha come obiettivo primario il miglior trattamento dei creditori e il rispetto del principio della par condicio creditorum, consentendo ai creditori di opporsi a soluzioni ritenute non soddisfacenti e al giudice di omologare solo gli accordi migliori possibili per i creditori, non può essere l’istituto diretto a perseguire la salvaguardia dell’azienda.
[1] Codice di Commercio del Regno d’Italia,Tip. Elzeviriana nel Min. Delle Finanze, 1883, in www.openlybrary.org
[2] F. MAGARELLI, M. LATTANZIO, Crisi d’impresa e Concordato Preventivo, Admaiora, 2018, p. 19
[3] L. Bolaffio, Il Concordato Preventivo, Enciclopedia italianatreccani, 1931, in www.Treccani.it.
[4] A. Jorio, La crisi d’impresa. A cura di Judice e Zatti, Giuffrè, 1979
[5] Concordato preventivo in “Enciclopedia Italiana” – Treccani, 1931
[6] Il nuovo codice civile, Proff. L. Franchi e V. Feroci, Ulrico Hoepli Editore, 1943
[7] La cessione dei beni nel concordato, Renato Miccio, dott. A. Giuffrè editore, 1953
[8] La cessione dei beni ai creditori, Antonino Castagna, dott. A. Giuffrè editore, 1957
[9] F. MAGARELLI, M. LATTANZIO, Crisi d’impresa e Concordato Preventivo, Admaiora, 2018, p. 24